Le dighe della CASMEZ (N.B.: pagina ancora incompleta)

Bambini tagliapietre (1948)
Bosa, 1948, piccoli tagliapietre (per cortesia dell'Istituto Superiore Regionale Etnografico della Sardegna)

«Spesso, da un po' in qua, ci si domanda quello che sia il Mezzogiorno. E' quello che ne han fatto la natura ingrata e la sorte avversa: una gran causa di debolezza, politica ed economica, per tutta quanta l'Italia, il cui destino è quindi riposto nella resurrezione del Mezzogiorno. Non ha scritto Giuseppe Mazzini: "l'Italia sarà ciò che il Mezzogiorno sarà"?» [Giustino Fortunato, La emigrazione delle campagne, 1879].

Tra le spaventose eredità che il ventennio fascista lasciava in carico all'Italia repubblicana e democratica non c'erano solo le devastazioni e i lutti prodotti dalla guerra, le amputazioni territoriali e l'ondata di profughi in fuga dall'odio dei vincitori verso gli italiani, esortati un tempo ad essere "mai abbastanza ladri, stupratori ed assassini" con le popolazioni dalmate; c'era anche un grave problema che durante il fascismo era rimasto in massima parte disconosciuto e sepolto: la "questione meridionale".

Per il fascismo la questione meridionale era un problema risolto o, comunque, in via di definitiva risoluzione per effetto dei provvidi interventi dello Stato fascista. L'enciclopedia Treccani, alla voce "questione del Mezzogiorno", riportava nel 1934 che «di una "questione meridionale" non si può più, oggi, legittimamente parlare: e perché tante differenze sono scomparse e perché ormai sono in piena attuazione i provvedimenti del governo fascista che mirano, intenzionalmente, a elevare il tono dell'Italia agricola specialmente meridionale. Ma più ancora, perché ogni traccia di contrasto, di antagonismo, ogni senso di interessi diversi, sono scomparsi dagli animi per la fusione operata dalla guerra mondiale e dal fascismo» [Raffaele Ciasca, voce Mezzogiorno, questione del, in Enciclopedia Italiana, Vol. XXIII, Roma, 1934, p. 151]. E invece, dopo il crollo del regime, si dovette far fronte allo stato di grave arretratezza e miseria estrema in cui ancora versavano le popolazioni del Meridione e delle Isole, sulla cui economia e condizioni di vita la guerra aveva infierito ancora più gravemente che nel resto del Paese.

Nel dopoguerra, nell'ambito dello slancio collettivo volto alla ricostruzione del Paese, la questione dell'unificazione economica dell'Italia riemerse come priorità assoluta, non più vista come problema di una sola parte del Paese, ma come nodo centrale di tutti i problemi italiani. In quegli anni, diversamente da oggi, che le sorti del Sud coincidessero con quelle dell'Italia intera era ritenuta un'ovvietà. La rinascita del Sud era considerata il compimento del processo risorgimentale. Nacquero così i primi piani economici, che videro impegnati i massimi esperti del Paese. Tra questi, l'insigne economista e meridionalista Pasquale Saraceno, che in passato aveva partecipato al risanamento del sistema bancario e industriale colpito dalla crisi del 1929. A lui venne affidata, già dal 1944, la direzione del Centro studi e piani tecnico-economici (CESPTE), fondato dall'IRI e dal Consiglio nazionale delle ricerche proprio al fine di definire le strategie per la rinascita economica del Paese.

Saraceno e Menichella
Pasquale Saraceno (1903–1991, a sinistra) e Donato Menichella (1896–1984)
Sul finire del 1946 lo stesso Saraceno, insieme con Donato Menichella, Direttore generale (poi Governatore) della Banca d'Italia e Rodolfo Morandi, Ministro dell'Industria, promosse la costituzione della SVIMEZ - Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, cui furono chiamati a collaborare i principali soggetti economici pubblici e privati italiani, nonché eminenti economisti stranieri; si ricordano, in particolare, Paul Rosenstein-Rodan, Jan Tinbergen, Robert Marjolin, Colin Clark, Vera Lutz, Richard Eckaus, Hollis Chenery. Parteciparono alla stipula dell'atto costitutivo i rappresentanti di Banca d'Italia, Banca commerciale italiana, Credito italiano, Banco di Roma, Banca nazionale del lavoro, IRI, IMI, Confindustria, Federconsorzi, Cisa-Viscosa, Coniel, FIAT, Finsider, Innocenti, Montecatini, Pirelli, Snia-Viscosa, Società meridionale di elettricità, Società anonima Arenella. Ulteriori, numerosi associati si aggiunsero nei mesi e negli anni successivi (tra questi: Banco di Napoli, Olivetti, Breda, Società Montevecchio). Al 31 dicembre 1947 il numero degli associati era già salito dai 19 iniziali a 45. 17 di questi avevano carattere nazionale, 19 erano impegnati nel Mezzogiorno e 9 svolgevano in prevalenza attività in altre regioni d'Italia. Nel 1958 il numero degli associati sarebbe salito a 88. Come da statuto, obiettivo della SVIMEZ era «Promuovere, nello spirito di una efficiente solidarietà nazionale e con visione unitaria, lo studio particolareggiato delle condizioni economiche del Mezzogiorno d'Italia, al fine di proporre concreti programmi di azione e di opere intesi a creare ed a sviluppare nelle regioni meridionali e nelle grandi isole quelle attività industriali le quali meglio rispondono alle esigenze dei dati di fatto accertati».

Gen. George Marshall
Il Segretario di Stato americano, Gen. George C. Marshall (1880–1959). Il 5 giugno 1947, presso l’Università di Harvard, tenne un celebre discorso col quale annunciò la decisione degli Stati Uniti di intraprendere il piano di aiuti che da lui prese il nome. Gli aiuti che vennero all'Italia nell'ambito del Piano Marshall raggiunsero il valore complessivo di 1,2 miliardi di dollari dell'epoca (pari a circa 17 miliardi di dollari attuali), tre volte il valore totale degli aiuti dell'UNRRA (421.000.000 $ dell'epoca).
Nonostante questo fervore di intenti e di studi, nei primi anni del dopoguerra fu il Nord, e non il Sud, a fruire per la maggior parte degli aiuti per la ricostruzione donati dalle Nazioni Unite e particolarmente dagli Stati Uniti alle popolazioni europee prostrate dalla guerra, ed estesi anche ai Paesi ex-nemici come Italia e Germania. A parte i beni e materiali donati dall'UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration) fino al 30 giugno 1947, rappresentati prevalentemente da materie prime, generi alimentari e di soccorso che poterono essere distribuiti a tutti, gli aiuti che subentrarono dopo la cessazione dell'UNRRA, donati direttamente dagli Stati Uniti nell'ambito di quello che fu chiamato "Piano Marshall" (dal nome del Segretario di Stato americano, Gen. George Marshall), erano prioritariamente rappresentati da macchinari e mezzi di produzione, coi quali si cercava di favorire la ripresa della produzione industriale dei Paesi beneficiari, ottenendo anche di mantenere la produzione industriale degli Stati Uniti sui livelli quantitativi del periodo bellico, grazie a nuove commesse pubbliche che si sostituivano a quelle di guerra.

Nel caso dell'Italia, i materiali da richiedere nell'ambito del programma di importazione di prodotti occorrenti per la riattivazione della produzione, il cosiddetto "Piano di primo aiuto", potevano essere utilizzati prevalentemente nel triangolo industriale, dove era localizzato il numero più rilevante degli impianti, e in parte nelle regioni centrali e nord-orientali. Invece, solo assegnazioni trascurabili furono previste per il Mezzogiorno, dove si trovavano pochi impianti, concentrati prevalentemente nell'area napoletana, che peraltro erano stati seriamente danneggiati dai reparti tedeschi in ritirata e la cui riattivazione richiedeva importanti e non immediati interventi di riparazione.

Inevitabilmente, dunque, dato lo squilibrio territoriale dell'apparato produttivo italiano, il Piano di primo aiuto finì per aumentare, e non ridurre, il divario tra Nord e Sud. «La vita della nuova Italia emersa dalla catastrofe bellica ricominciava quindi secondo la tradizionale sequenza: prima uno sviluppo economico che accentua il divario, poi, a favore del Mezzogiorno, interventi di varia natura intesi a correggere in qualche modo gli effetti di un andamento che, lasciato a se stesso, avrebbe escluso il Mezzogiorno dai suoi benefici. Queste amare considerazioni portarono, direi subito, alla constatazione che la stessa vicenda si sarebbe ripetuta nelle varie fasi in cui si sarebbe poi svolta la ricostruzione e, perché no?, anche oltre. Come poteva cambiare un modello di sviluppo che operava nel nostro Paese in modo da rendere non conveniente l'investimento volto a creare occupazione nel Mezzogiorno? Un modello, si noti, che produceva un aumento del divario e rendeva poi necessaria una spesa pubblica che, effettuata in una situazione di non convenienza ad investire, poteva avere solo carattere di assistenza e non di sviluppo. Ma, se questo era il modello di sviluppo, si fa per dire, della società italiana, perché non finalizzare quella spesa al fine di creare quella convenienza ad investire che mancava nel Mezzogiorno? È dalla risposta data a questo interrogativo che nasce presso la SVIMEZ il nuovo meridionalismo e, come primo prodotto, l'idea dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno» [Saraceno, Il nuovo meridionalismo, 1984].

In realtà, se in una prima fase il Meridione si avvantaggiò assai meno del Nord degli aiuti del Piano Marshall, in una fase successiva poté indirettamente fruirne. I beni e i macchinari donati dall'UNRRA e dall'ERP (European Recovery Program, mediante il quale si esplicò il Piano Marshall), anche se in parte furono distribuiti gratuitamente ai più bisognosi, per la maggior parte furono venduti dal Governo italiano alla popolazione e alle imprese a prezzi concordati con gli Enti donatori. I ricavi netti delle vendite furono versati in un "Fondo Lire" del Tesoro presso la Banca d'Italia, e utilizzati per finanziare programmi di assistenza e riabilitazione stabiliti d'accordo con i donatori. Fra i principali, l'assistenza alimentare gratuita a circa 1.800.000 madri e bambini, la lotta antimalarica, il programma contro il tracoma e la tubercolosi, la costruzione a Roma della prima fabbrica di penicillina in Italia, il programma di riparazioni e ricostruzione di case per i sinistrati e infine, in parte, la Cassa per il Mezzogiorno.

Disinfestazione (1950)
1950, disinfestazione all'interno di una casa eseguita da un operaio dell'ERLAAS, Ente Regionale per la Lotta Anti-Anofelica in Sardegna (per cortesia dell'Istituto Superiore Regionale Etnografico della Sardegna)
Va ricordato, in particolare, come in Sardegna, grazie ai proventi delle donazioni UNRRA ed ERP e al contributo scientifico e finanziario della Fondazione Rockefeller, fu sostenuta l'attività dell'ERLAAS, Ente Regionale per la Lotta Anti-Anofelica in Sardegna, che operò dal 1946 al 1950 conseguendo la completa eradicazione della zanzara anofele dall'Isola e la fine della piaga millenaria della malaria.

Lo strumento col quale fu infine attuato l'intervento straordinario nel Mezzogiorno concepito dagli uomini della SVIMEZ fu la Cassa per le opere straordinarie di pubblico interesse nell'Italia Meridionale, comunemente denominata Cassa per il Mezzogiorno, o ancor più sinteticamente CASMEZ. Al disegno di legge per l'istituzione della Cassa (che De Gasperi avrebbe voluto chiamare "Istituto per il Risorgimento del Mezzogiorno") attese principalmente il Governatore della Banca d'Italia, Donato Menichella, insieme con lo scienziato napoletano Francesco Giordani, già presidente dell'IRI e del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Il disegno fu approvato dal Parlamento italiano con la legge n. 646 del 10 agosto 1950, istitutiva della CASMEZ.

Contemporaneamente, con la legge n. 841 del 21 ottobre 1950 e altre che seguirono, fu varata la riforma agraria, in applicazione dell'art. 44 della Costituzione che prevede dei limiti di estensione della proprietà terriera privata e impone la bonifica delle terre al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo. Grazie alla riforma, si stima che tra il 1950 e il 1964 furono espropriati e trasferiti ai braccianti agricoli circa 3,6 milioni di ettari incolti o mal coltivati. La complessiva riduzione delle dimensioni delle aziende agricole che ne derivò, impose da un lato forme di cooperazione grazie alle quali fosse possibile programmare le produzioni e centralizzare la vendita dei prodotti, e dall'altro la bonifica delle superfici utilizzate ai fini di un più razionale e remunerativo sfruttamento. Nel Meridione, una delle principali attività cui attese la Cassa per il Mezzogiorno fu proprio la realizzazione delle importanti e imponenti opere occorrenti per la bonifica e l'irrigazione dei terreni agricoli.

La CASMEZ era un ente con un elevato grado di autonomia sia nella programmazione delle iniziative che nella distribuzione dei fondi, caratterizzato da una specifica giurisdizione territoriale, che abbracciava le sette regioni meridionali (divenute poi otto con la separazione, nel 1963, di Abruzzo e Molise): Abruzzo e Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, più alcuni territori del Lazio (province di Latina e Frosinone e alcuni comuni delle province di Roma e Rieti) e altre aree più limitate delle Marche (la zona di Ascoli Piceno) e della Toscana (isole d'Elba, del Giglio e Capraia). Questi confini rimarranno praticamente immutati durante i quarant'anni di intervento straordinario, sopravvivendo anche alla trasformazione, con la legge n. 64 del 1986, della Cassa in AGENSUD (1986-1992). Al loro interno, però, si distingueranno alcune aree beneficiarie di particolari interventi: fin dall'inizio i "comprensori di bonifica", poi, soprattutto con le leggi n. 634 del 1957 e n. 555 del 1959, i "nuclei di industrializzazione" e le "aree di sviluppo industriale"; con il piano quinquennale della seconda metà degli anni '60 (legge n. 717 del 1965), furono aggiunti anche i "comprensori di sviluppo turistico" e gli "ambiti territoriali caratterizzati da particolare depressione".

Cartellone Cuga
Primi anni '60, cartelloni descrittivi dei lavori di costruzione della diga del Cuga (SS)
Con la legge istitutiva della Cassa lo Stato italiano si impegnava in un programma decennale di spesa di complessivi 1.000 miliardi di lire dell'epoca (circa 22 miliardi di euro del 2024) per lo sviluppo del Mezzogiorno. La legge prevedeva che qualora i fondi assegnati non fossero stati sufficienti, avrebbero potuto essere utilizzate altre disponibilità della Cassa, salvo reintegrazione negli anni successivi. In particolare, la Cassa era autorizzata ad emettere obbligazioni e a contrarre prestiti, anche all’estero, previa approvazione con decreto del Ministro per il tesoro, sentito il Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio. Ad ogni modo, il fondo di 1.000 miliardi di lire assegnato originariamente venne integrato con altri 280 miliardi di lire già dal 1952, con la legge n. 949 che estendeva anche a dodici anni la durata degli interventi, e ulteriormente incrementato con provvedimenti successivi, che prorogarono ancora l'attività della Cassa.

Fino al 1957 l'attività della Cassa fu volta principalmente ad infrastrutturare il Meridione, creando le condizioni per lo sviluppo delle attività produttive e per la futura industrializzazione, che si portò avanti negli anni successivi. Il modello di riferimento cui si ispirarono i fondatori della Cassa fu la Tennessee Valley Authority americana, creata nel 1933 nell'ambito del New Deal roosveltiano per realizzare infrastrutture (bonifica, irrigazione, energia idroelettrica) nel sistema fluviale del Tennessee: un'agenzia federale che autonomamente avrebbe progettato, gestito e ottimizzato gli interventi pubblici in una certa area del Paese. Fu questa autosufficienza politica e tecnica della CASMEZ il segreto del suo successo e della sua efficacia; un segreto che, a ben vedere, era alla base anche del successo della Società Elettrica Sarda negli anni '20 e poi nel secondo dopoguerra, quando la SES realizzò le dighe del sistema idroelettrico dell'Alto Flumendosa e poi del Taloro: quello di rappresentare una compagine così capace da condurre a compimento opere di enorme impegno senza interferenze politiche paralizzanti, anche in assenza, o carenza, di capacità tecniche, organizzative e finanziarie di soggetti e amministrazioni locali. «Le finalità dell'azione della "Cassa" erano quelle di dotare il Mezzogiorno di infrastrutture civili e di sostenere la riforma agraria rendendo possibile l'irrigazione. La struttura organizzativa era estremamente agile costituita in maggioranza da tecnici tra i quali molti altamente qualificati – agronomi e soprattutto ingegneri – nel settore delle bonifiche e delle opere idrauliche; questi tecnici avevano retribuzioni elevate, proporzionate del resto alle loro capacità. Ci si può domandare, leggendo la legge istitutiva della "Cassa", perché una istituzione essenzialmente finanziaria alla quale la legge istitutiva assegnava il compito di trasferire fondi sulla base di concessioni amministrative per i progetti presentati dai cosiddetti Enti Concessionari (Comuni, Province, Enti di Bonifica) avesse bisogno di tanti tecnici. In effetti quasi sempre il livello di competenza degli Enti Concessionari era bassissimo anche per assoluta mancanza di esperienza. Perciò la "Cassa" oltre che al finanziamento dei progetti doveva poi per la loro redazione ed esecuzione fornire una intensissima opera di assistenza tecnica da parte dei suoi funzionari. Anche in questo caso è abbastanza chiara l'influenza della TVA che eseguiva le opere in via diretta.» [Petriccione, La Cassa per il Mezzogiorno come io la vidi, 2011].

Gabriele Pescatore
Gabriele Pescatore (1916-2016), presidente della Cassa per il Mezzogiorno dal 1955 al 1976, ne incarnò i valori, le strategie e le concrete attuazioni. «La sua presidenza della Cassa per il Mezzogiorno, durata oltre un ventennio, ha segnato la stagione migliore dell'intervento pubblico per ridurre il divario tra Nord e Sud, per accrescere opportunità e diritti di larghi settori sociali, per realizzare programmi e infrastrutture necessari alle regioni meridionali, e dunque alla crescita e al benessere della nazione intera» [Sergio Mattarella].
Il problema del basso livello di organizzazione, se non di competenza, degli Enti concessionari di finanziamenti pubblici, nel Meridione esiste tutt'oggi, e ciò fa sì che investimenti anche generosi dello Stato nel Mezzogiorno restino spesso solo potenziali, finendo per essere ritirati una volta constatata l'incapacità dei Concessionari di condurre in porto in tempo utile gli interventi finanziati. E' colpa del Sud che non riesce a darsi una classe dirigente all'altezza? In parte sì, è innegabile. Ma è un limite dei Governi nazionali, a fronte delle riconosciute carenze funzionali delle amministrazioni meridionali, non curarsi di superarle con l'unico strumento utile ipotizzabile: un soggetto capace di per sé di trasformare un obiettivo e un finanziamento in un'opera finita, ciò che nella pubblica amministrazione italiana, dopo la Cassa per il Mezzogiorno, non è più esistito.

Sui motivi per i quali, col tempo, l'azione della CASMEZ perse in gran parte l'iniziale efficacia, in Italia si è detto e scritto tantissimo. Forse troppi rilanci, troppe competenze che appesantirono l'azione della Cassa, innegabili errori nell'impiantare al Sud grandi complessi industriali, che da un lato entrarono in competizione e misero in difficoltà un tessuto sociale fatto di piccole e medie aziende artigianali, e dall'altro si rivelarono non abbastanza agili, dopo la crisi petrolifera degli anni '70, da far fronte alle mutate condizioni del mercato globale. Ma soprattutto, venne meno progressivamente l'autonomia dalla politica, gravemente ostacolata già con la legge n. 717 del 1965, che prevedeva l'obbligo di sottoporre all'approvazione del Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno i programmi della Cassa.

Con l'avvio delle Regioni a statuto ordinario nel 1970 cambiarono poi definitivamente gli equilibri di potere tra centro e periferie. Nuovi provvedimenti di legge consentirono alle neo-costituite Regioni di aumentare notevolmente l'influenza politica sulla Cassa, intervenendo direttamente nella pianificazione e realizzazione dei progetti, e sostituendo progressivamente i tecnici della Cassa con propria burocrazia locale, talora selezionata per lealtà politica. Le distorsioni crebbero patologicamente nella seconda metà degli anni '70 e poi soprattutto nel decennio successivo, finché la stessa politica che aveva azzoppato e trasformato la Cassa in un ente costoso e inefficace decise infine di chiuderla.

Nell'aprile 1984 il Parlamento negò l'ennesima proroga alla Cassa per il Mezzogiorno, che con D.P.R. in data il 6 agosto dello stesso anno, dopo 34 anni di attività, venne soppressa e posta in liquidazione. Benché formalmente soppressa, la Cassa continuò tuttavia a operare per portare a termine i progetti già in corso, finché nel 1986, con la legge n. 64 in data 1° marzo, che portava il titolo "Disciplina organica dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno", la struttura residua rinacque come Agenzia per la promozione e lo sviluppo nel Mezzogiorno (AGENSUD). La nuova AGENSUD, tuttavia, non ebbe il respiro della prima CASMEZ, quello di unico e autonomo istituto deputato allo sviluppo del Mezzogiorno; essa avrebbe dovuto limitarsi a erogare fondi e a concorrere con specifici "enti di promozione per lo sviluppo del Mezzogiorno" al raggiungimento degli obbiettivi di un programma triennale di sviluppo. Alla realizzazione del programma triennale si sarebbe provveduto mediante piani annuali di attuazione, formulati dal Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno con il concorso delle regioni meridionali.

Nel 1992, sotto la spinta dell'indignazione dell'opinione pubblica creata dall'inchiesta "Mani pulite" e di furenti iniziative referendarie volte a sopprimere sia l'AGENSUD che i Ministeri del Mezzogiorno, delle partecipazioni statali e dell'agricoltura, si decise di porre fine all’intervento straordinario nel Mezzogiorno. La legge 19 dicembre 1992, n. 488, soppresse l'AGENSUD a decorrere dal 1º maggio 1993, affidando al Ministero del bilancio e della programmazione economica (poi confluito nel Ministero dell'economia e delle finanze) il coordinamento, la programmazione e la vigilanza sull'intervento pubblico nelle aree economicamente depresse del territorio nazionale.

Sa Untana Manna (1948)
Oliena, 1948, donne raccolgono l'acqua alla fonte "Sa Untana Manna" (per cortesia dell'Istituto Superiore Regionale Etnografico della Sardegna)
Nonostante l'infausta evoluzione e fine della Cassa per il Mezzogiorno, la sua eredità è enorme e preziosa. Resta innanzi tutto l'esempio virtuoso dei primi anni della Cassa, come unico strumento che, nella storia dell'Italia unita, è realmente servito a far decollare il reddito del Sud avvicinandolo a quello del Nord e creando le premesse del miracolo economico italiano degli anni '50 e dei primi anni '60. Nessuno che voglia seriamente affrontare il problema del divario di reddito tra Nord e Sud, nuovamente e pericolosamente allargatosi, potrà mai prescindere da un precedente tanto efficace e fruttuoso. Ma restano soprattutto le opere: strade, porti, aeroporti, ospedali, scuole, bonifiche, dighe, acquedotti, che non sono bastati ad agganciare stabilmente la capacità produttiva del Sud a quella del Nord più sviluppato, ma hanno comunque sollevato il Mezzogiorno dalle condizioni di arretratezza e prostrazione in cui versava prima che l'intervento straordinario fosse concepito, ridando dignità e opportunità di lavoro alle persone e facendo infine dell'Italia tutta, nonostante i tanti problemi irrisolti, un Paese avanzato.

In Sardegna l'impegno della CASMEZ nelle opere idrauliche (bonifiche, irrigazioni, acquedotti, fognature e, naturalmente, dighe per alimentare le utenze e regolare il regime dei corsi d'acqua) fu particolarmente importante, proporzionale, del resto, alle gravi necessità della regione. Il Piano di normalizzazione dell'approvvigionamento idrico dell'Italia Meridionale e delle Isole varato dalla Cassa consentì finalmente che in tutte le case vi fosse l'acqua corrente, abbondante, di buona qualità e a un costo ragionevole.

Zone di intervento
Le zone di intervento per le opere pubbliche di bonifica in Sardegna nei programmi della CASMEZ: in verde le zone di bonifica agraria; in beige quelle di bonifica montana (analoga sul piano delle finalità ma richiedente un intervento finanziario più massiccio nella realizzazione delle opere pubbliche e private); in rosa quelle di sistemazione montana (rimboschimenti e sistemazioni idraulico-agrarie dei terreni); in giallo le zone interessate da programmi di bonifica, irrigazione e trasformazione agraria in dipendenza della riforma fondiaria.
L'intero territorio dell'Isola fu considerato zona di intervento per opere di bonifica o adeguamento di qualche natura (bonifica agraria, bonifica montana, sistemazione montana, trasformazione fondiaria al fine di conseguire nuove o maggiori produzioni, ridefinendo anche la fittezza delle maglie stradali). Imponente fu l'azione della Cassa per dotare la regione, alquanto povera di risorse idriche sotterranee, degli invasi artificiali indispensabili per l'approvvigionamento irriguo e potabile. Fu la Cassa che finanziò e promosse il completamento delle dighe ausiliarie dell'invaso di Monti Pranu; il completamento della diga di Casteldoria con le opere finalizzate all'irrigazione del Comprensorio di bonifica della Bassa Valle del Coghinas; la realizzazione del sistema Flumendosa-Campidano-Cixerri con le dighe di Nuraghe Arrubiu, Monte Su Rei, Flumineddu, Sa Forada de s'Acqua, Casa Fiume, Rio Leni, Punta Gennarta, Genna Is Abis, Medau Zirimilis; il sistema di irrigazione della Nurra, con le dighe del Cuga e di Monteleone Roccadoria; la diga di Maccheronis per l'irrigazione del Comprensorio di bonifica Siniscola-Posada-Torpè; la diga del Liscia per l'irrigazione del Comprensorio di bonifica Olbia-Padrogianus e l'alimentazione potabile della Gallura; la diga di Pedra 'e Othoni per la regolazione idraulica e l'utilizzazione irrigua del fiume Cedrino e dei suoi affluenti; la diga di Monte Lerno per l'irrigazione del Comprensorio di bonifica dell'Agro di Chilivani; la diga di Santa Lucia per l'irrigazione del Comprensorio di bonifica dell'Agro di Tortolì, le dighe per gli acquedotti civili: Govossai, Bidighinzu, Sos Canales, Bau Pressiu, Torrei, Simbirizzi, Is Barrocus, Olai; la diga di Monti di Deu per l'alimentazione della Zona industriale di Tempio-Calangianus e le aree irrigue del distretto di Padulo, presso Tempio; le nuove dighe del sistema Tirso, Cantoniera e Nuraghe Pranu Antoni.

I sistemi di esecuzione che la legge istitutiva della Cassa prevedeva erano quelli dell'affidamento, della concessione o dell'appalto diretto. Affidamento e concessione, in realtà, sono istituti assai simili: in entrambi i casi è l'affidatario, o il concessionario, che esegue l'opera mediante appalto o in economia; ed i rapporti con l'appaltatore o il cottimista si istituiscono con l'affidatario (o concessionario) e non con l'affidante (o concedente). La differenza fra i due istituti, secondo la dottrina, starebbe essenzialmente nella figura dell'affidatario o concessionario: l'affidamento è un rapporto inter pares, come quello che la CASMEZ poteva avere con altri organi dello Stato (ad esempio il Corpo Forestale, cui potevano essere "affidate" opere di sistemazione dei bacini montani di competenza forestale); viceversa, la concessione presuppone una differenza di livello tra la CASMEZ, ente statale concedente, ed i concessionari, enti locali e loro consorzi, consorzi di bonifica e di irrigazione e ad altri enti di diritto pubblico, ivi compresi i Consorzi per le aree ed i nuclei di sviluppo industriale, nonché gli altri enti di sviluppo in agricoltura (art. 8, comma 1, L. n. 646/1950).

Secondo M. Mazzone [I sistemi di esecuzione delle opere pubbliche e la Cassa per il Mezzogiorno, 1978], "La sola differenza che, nella prassi della Cassa, sembra distinguere gli affidamenti dalle concessioni è costituita dalla misura e dal modo di liquidazione delle c.d. «spese generali» che la Cassa riconosce a compenso degli oneri tecnici e amministrativi sopportati dagli affidatari e dai concessionari per l'esecuzione delle opere. Nelle concessioni, queste spese sono infatti stabilite in una misura percentuale forfettaria e possono raggiungere nel massimo anche il 18% dell'intera spesa occorsa per l'esecuzione dell'opera; negli affidamenti, invece, esse sono rimborsate a consuntivo, a presentazione del rendiconto documentato degli oneri realmente sostenuti, e sono di regola percentualmente modeste (1-2%)".

Dighe CASMEZ Il sistema delle dighe e delle traverse della Cassa per il Mezzogiorno in Sardegna (...) L'istituto di gran lunga prevalente, nell'esecuzione delle opere di competenza della Cassa, fu comunque quello della concessione, subordinata al preventivo accertamento dell'idoneità tecnico-amministrativa dell'ente interessato (art. 8, comma 1, L. n. 717/1965). In difetto, restava l'appalto diretto, nel qual caso era la stessa Cassa che curava l'esecuzione dell'opera, ciò che in Sardegna accadde per le dighe di Sos Canales, Bidighinzu e Torrei.

In ogni caso, anche per le opere concesse, la Cassa esercitava un'attenta ed attiva supervisione, assicurando il buon esito della costruzione. All'ombra della CASMEZ nella realizzazione di grandi opere, e di progettisti di grande spessore come Filippo Arredi, Velio Princivalle, Claudio Marcello, Nullo Albertelli, Sante Serafini, Giuseppe Sapienza, si formò e crebbe in Sardegna, presso gli Enti concessionari, una generazione di tecnici di assoluta competenza e capacità che per molti anni rappresentò per la regione un'ulteriore importante eredità della Cassa per il Mezzogiorno.

Nel 1974 fu presentato dal Centro Regionale di Programmazione il Progetto di piano di utilizzazione delle risorse idriche della Sardegna, che originò il progetto speciale n. 25 "per il potenziamento e il reperimento delle risorse idriche della Sardegna", deliberato dal CIPE nel 1975 ai sensi della L. 6 ottobre 1971, n. 853, destinato ad essere finanziato dalla Cassa per il Mezzogiorno. Nell'ambito del progetto speciale n. 25 furono finanziate e infine realizzate le ultime dighe della Cassa in Sardegna: Nuraghe Pranu Antoni, Flumineddu, Rio Leni, Santa Lucia, Simbirizzi, Genna Is Abis, Medau Zirimilis - Carru Segau, Cantoniera, Is Barrocus, Monti di Deu e Olai.

Alla cessazione della CASMEZ, le opere in corso di esecuzione, o comunque già finanziate, vennero cedute, insieme con i finanziamenti relativi, agli Enti concessionari, che provvidero a gestire gli appalti e concludere i lavori. Non poterono invece essere finanziate altre 33 dighe pur contemplate nel progetto speciale n. 25, cui si aggiungeva anche un intervento sull'esistente diga di Mogoro, della quale era previsto il sopraelevamento e la conversione da diga di laminazione in diga di ritenuta. Era anche allo studio un aumento di invaso, non realizzato, della diga di Nuraghe Arrubiu, per complessivi 45 Mm³.

La mappa in figura, nell'ambito delle dighe e traverse della Sardegna classificabili come "grandi dighe", riporta in giallo le opere finanziate dalla Cassa per il Mezzogiorno, tutte effettivamente realizzate. In alcuni casi (Santa Vittoria, Monti Pranu, Casteldoria) si trattò di opere di completamento di dighe già realizzate; in tutti gli altri casi, complessivamente 26, la Cassa per il Mezzogiorno finanziò effettivamente la costruzione della diga. Sono invece indicate in rosso le dighe pur previste nel progetto speciale n. 25 che non poterono essere finanziate dalla Cassa. Sono indicate in verde le dighe sui Rii Monti Nieddu e Is Canargius, non finanziate dalla Cassa per il Mezzogiorno e tuttavia andate in appalto sul finire degli anni '90 (e ad oggi non ancora concluse). [N.B.: Per visualizzare l'immagine ingrandita e la didascalia con l'elenco delle dighe occorre cliccare sul simboletto ]

Gli studi e le elaborazioni finalizzati a pianificare gli interventi nel campo della utilizzazione delle risorse idriche dell'Isola non si conclusero con la predisposizione del progetto speciale n. 25. Continuarono, invece, su iniziativa della Regione e della stessa CASMEZ. Nel dicembre 1977 fu affidato dalla Regione all'Ente Autonomo del Flumendosa (EAF) il coordinamento di un complesso di ricerche, indagini ed elaborazioni finalizzate alla predisposizione di un piano generale delle risorse idriche della Sardegna, il cosiddetto "Piano delle Acque". In quest'ambito, furono predisposti il Nuovo Piano Regolatore Generale degli Acquedotti (1983), elaborato da un gruppo di studio congiunto ESAF/EAF, lo Studio dell'Idrologia Superficiale della Sardegna (1980), condotto dal Prof. Carlo Cao Pinna, lo Studio delle Risorse Idriche Sotterranee della Sardegna (1984), elaborato presso l'Università di Sassari sotto la direzione del Prof. Antonio Pietracaprina, lo studio pedologico finalizzato alla predisposizione della Carta dei Suoli e delle Aree Irrigabili della Sardegna, realizzato dall'EAF con la collaborazione del Prof. Angelo Aru, lo studio sugli Aspetti normativo-istituzionali e sistemi tariffari nel quadro del Piano Acque in Sardegna (1983), elaborato dal CIRIEC (Centro italiano di ricerche e d'informazione sull'economia pubblica, sociale e cooperativa) per conto dell'EAF.

Dighe Piano Acque I 75 grandi invasi della Sardegna contemplati nel Piano delle Acque (...) Il Piano delle Acque, Studio per la pianificazione delle risorse idriche in Sardegna fu infine presentato nel 1988. Obiettivo dichiarato del Piano era la definizione del complesso delle opere necessarie al fine di garantire il soddisfacimento integrale delle esigenze di approvvigionamento idrico dell'Isola. L'orizzonte temporale di riferimento per la stima del fabbisogno potenziale era fissato in 50 anni. "L'ipotesi che sottende l'assunto è che, nel prossimo cinquantennio, gli eventuali vincoli di qualunque origine (e, segnatamente, di ordine finanziario), non precludano la possibilità di estendimento della pratica irrigua a tutti i terreni suscettibili di trasformazione e non incidano negativamente sulle potenzialità espansive del settore industriale". L'ipotesi di studio era insomma il maximum maximorum degli scenari di sviluppo prevedibili a lungo termine, al verificarsi dei quali si ipotizzava che la popolazione potesse crescere da 1.400.000 a 2.800.000 abitanti nei 50 anni. Va da sé che la prima ipotesi a cadere sia stata quella dell'assenza di vincoli di carattere finanziario allo sviluppo della regione. Già all'atto della presentazione del Piano delle Acque la Cassa per il Mezzogiorno era stata soppressa, e la residua AGENSUD lo sarebbe stata nel volgere di quattro anni. L'epoca in cui lo Stato considerava l'infrastrutturazione e lo sviluppo del Mezzogiorno un obiettivo prioritario era definitivamente tramontata.

Ad ogni modo, dalle ottimistiche ipotesi del Piano derivava un fabbisogno complessivo a lungo termine pari a 2.708 Mm³ all'anno, di cui 417 per usi civili, 376 per usi industriali, 1.806 per usi per usi agricoli e (soli) 109 per perdite di trasporto. Il fabbisogno sarebbe stato soddisfatto principalmente mediante la realizzazione di ulteriori 38 grandi invasi, uno dei quali si sarebbe ottenuto dal confermato sopraelevamento della diga di Mogoro, convertita in diga di ritenuta. I nuovi invasi, aggiungendosi ai 37 allora esistenti (37 senza contare i bacini non destinati all'invaso, come Sa Teula, Bau Mela, Bau Mandara, Flumineddu), avrebbero portato il numero degli invasi artificiali della Sardegna a 75.

Per ognuno dei 38 nuovi invasi, nel Piano delle Acque veniva ipotizzata una percentuale minima e una massima di deflussi naturali utilizzabili, e dunque un valore minimo e uno massimo della capacità che si sarebbe potuta attribuire all'invaso da realizzare. Corrispondentemente, la capacità complessiva dei 38 invasi andava all'incirca da un minimo di 1.300 Mm³ a un massimo di 2.600 Mm³. Dalle elaborazioni eseguite scaturiva infine che la soluzione ottimale, quella che avrebbe consentito il soddisfacimento integrale della domanda, richiedeva una capacità complessiva dei nuovi invasi pari a circa 1.920 Mm³, che aggiungendosi ai 2.270 Mm³ degli invasi già esistenti avrebbe portato il volume teoricamente invasabile in Sardegna a 4.190 Mm³.

Il venir meno di un forte impegno dello Stato nel finanziare e favorire l'infrastrutturazione della regione, e insieme l'incapacità degli Enti regionali di superare autonomamente i pesanti ostacoli frapposti da un quadro normativo sempre più complesso in materia di tecnica, impatto ambientale, appalti pubblici, sicurezza e protezione civile, han fatto sì che il Piano delle Acque sia rimasto in massima parte inattuato. Dei 38 nuovi invasi previsti (vedi mappa in figura), hanno raggiunto la fase progettuale quelli del Mogoro, del Posada ad Abba Luchente, dell'Alto Cedrino (non più sbarrato a Punta Sos Alineddos ma più a monte, a Cumbidanovu), del Tirso a Terramala, del Mannu di Cuglieri a San Marco, del Rio Santa Maria Maddalena a Monte Exi, del Rio Monti Nieddu a Sa Stria, del Rio Is Canargius a Medau Aingiu e del Basso Flumendosa (con sbarramento non a Nuraghe Scrocca ma un po' più a monte, a Monte Perdosu); hanno raggiunto la fase attuativa, ma non ancora il completamento, solo quelli dell'Alto Cedrino e dei Rii Monti Nieddu e Is Canargius.

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N.B.: Pagina ancora incompleta


Santa Chiara

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Bibliografia

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